Il fenomeno dei falsi invalidi: le responsabilità vanno condivise

Non c’è giorno, nel nostro Paese, in cui non si scopra almeno un “falso invalido“, cioè colui che dichiara allo Stato di essere disabile per potere usufruire della pensione d’invalidità. Succede dappertutto ma più al Sud che al Nord, non perché i meridionali siano più “disonesti” dei settentrionali – sarebbe quantomeno inopportuno fomentare un pensiero simile – ma perché è risaputo che nel Mezzogiorno le condizioni economiche siano peggiori di quelle del Settentrione (anche se la crisi economica sta mietendo le sue “vittime” anche dalle nostre parti).

La cronaca di oggi, per fare un esempio, racconta di 30 denunce ad Avellino, di un blitz della Guardia di Finanza a Napoli (con tanto di 44 arresti) e della scoperta di 40 falsi ciechi nella provincia di Roma. E c’è chi, come il deputato Massimiliano Fedriga della Lega Nord, vorrebbe che lo Stato triplicasse i controlli sulle pensioni d’invalidità al Sud e che si adoperasse per recuperare le somme indebitamente percepite dai falsi invalidi.

Insomma, il “falso invalido” è una piaga perché causa un doppio danno: da un lato alle casse dello Stato giacché sono depauperate ingiustamente; dall’altro nei confronti dei “veri invalidi” perché scavalcati nelle graduatorie per la concessione degli interventi assistenziali, delle indennità e delle pensioni.

C’è da rilevare, però, un aspetto che è spesso sottaciuto quando ci si imbatte in un caso di “falsa invalidità”: la colpa – dolosa o colposa – di chi dà il via libera alla somministrazione delle somme.

Perché se, all’origine, non ci fosse l’errore di chi accerta la disabilità, il falso invalido non esisterebbe.

Insomma, il fenomeno dei falsi invalidi è largamente diffuso in Italia perché c’è un apparato che ne permette lo sviluppo e basterebbe “poco” per porre in essere i rimedi necessari.

Ad esempio, perché non assegnare ad una commissione medica, anche una sola per Provincia, la revisione periodica delle pratiche?

Inoltre, bisognerebbe non solo erogare la pensione in relazione alla percentuale d’indennità ma anche all’effettiva valutazione della capacità di lavoro, perché ci possono essere casi in cui il disabile può raggiungere alti livelli di produttività persino con un’alta percentuale d’invalidità. Infine, quando si grida al “falso invalido”, non bisogna pensare che i disabili siano tutti uguali. Ovvero che, per esserlo, bisogna necessariamente e sempre stare seduti su una sedia a rotelle. Non è affatto così.

Ci sono situazioni, infatti, in cui il diversamente abile si può anche alzare dalla “carrozzella” da un momento all’altro, non perché sotto beneficio di chissà quale “miracolo” ma perché si possono alternare periodi di mobilità autonoma soddisfacente ad altri in cui le gambe ti abbandonano.

Insomma, la questione dell’invalidità non è di semplice interpretazione e sarebbe un errore affrontarla con superficialità. Al contempo, sarebbe grave pensare che il marcio risieda solo nel “falso invalido” (senza pensare a chi permette che lo sia) o che un disabile possa fingere solo perché non stia sempre seduto.