Lo storico israeliano Ilan Pappé interpreta l’attacco di Hamas del 7 ottobre come il punto di rottura di due crisi intrecciate: quella del rapporto tra Israele e Palestina e quella interna alla stessa società israeliana, divisa tra uno Stato di Israele laico e liberale e uno “Stato di Giudea” religioso, messianico e ultranazionalista.
Secondo Pappé, quest’ultima componente, oggi dominante, ha isolato Israele nel mondo e rivelato le sue contraddizioni: un Paese con una forza aerea imponente ma un esercito incapace di affrontare guerre irregolari, come già accadde in Libano nel 2000 e oggi a Gaza.
Pappé rilegge l’antisemitismo come un razzismo europeo contro altri europei. Da questa logica nacque il sionismo, che trasformò un’identità religiosa in un progetto politico-nazionalista, proponendo uno Stato ebraico in Medio Oriente.
Un’idea “folle”, dice, perché ha privato i palestinesi della loro patria per risolvere un problema europeo. Invece di combattere l’antisemitismo nei luoghi in cui era nato, l’Europa lo ha “esportato”, costruendo uno Stato coloniale e giustificandolo con il mito del “ritorno dopo duemila anni”.
Richiamandosi all’Impero Ottomano, Pappé sottolinea come il Medio Oriente fosse un mosaico di convivenze che il modello di Stato-nazione imposto da Gran Bretagna e Francia dopo la Prima guerra mondiale ha distrutto.
Gli israeliani, osserva, non sono ancora pronti ad accettare di essere “un popolo tra gli altri” nel Mediterraneo orientale.
Nel libro Across the Wall, scritto con storici israeliani e palestinesi, Pappé respinge la tesi della responsabilità condivisa del conflitto: non c’è simmetria tra occupante e occupato, tra chi compie e chi subisce una pulizia etnica.
Solo una decolonizzazione della mente potrà portare ad una decolonizzazione del Paese.
Il modello del Sudafrica post-apartheid, dove i bianchi sono stati riconosciuti come una delle tribù del Paese, rappresenta per Pappé un possibile esempio: i palestinesi potrebbero accettare gli ebrei come un gruppo tra i molti del Levante, ma solo se Israele rinuncia alla sua pretesa di superiorità.
Analizzando la storia recente, Pappé accusa i leader israeliani di aver perseguito un obiettivo costante: ridurre o espellere la popolazione palestinese.
Gaza, trasformata da Sharon in una “prigione a cielo aperto” e poi gestita da Netanyahu attraverso un fragile equilibrio economico con Hamas, è esplosa quando la popolazione ha rifiutato di vivere come in un Bantustan sudafricano.
Il 7 ottobre ha offerto all’estrema destra il pretesto per una distruzione annunciata.
Pappé individua nella debolezza europea la chiave del perdurare della tragedia: “Basterebbe sospendere le collaborazioni, imporre sanzioni e il massacro finirebbe domani.”
Ma l’Europa, dice, “abbaia ma non morde”: governi complici, società civile contraria, politici giovani paralizzati dal calcolo di carriera.
Solo quando l’Europa riconoscerà che sostenere Israele è controproducente moralmente e politicamente, potrà cambiare rotta.
Rendere giustizia ai palestinesi, conclude Pappè, significa affrontare un problema più vasto: il divario tra etica e potere, che attraversa tutte le crisi globali — dal clima alle migrazioni, dalle disuguaglianze alla guerra.
Se la politica continuerà a ignorare la giustizia, vincerà la forza.
Ma se la morale tornerà a orientare le scelte collettive, non solo la Palestina, ma il mondo intero, potrà ancora salvarsi.
Rendere giustizia ai Palestinesi significa rendere giustizia a molti altri gruppi e a molteplici questioni nel mondo come il riscaldamento globale, la povertà, le rigidità sull’immigrazione…
E’ tutto collegato e Gaza è solo un sintomo di un problema più ampio, quello del divario tra la società e le élite politiche.
Se le questioni morali non hanno nulla a che vedere con la politica, ma con gli interessi e il potere, come sostiene Netanyahu, Israele vincerà. Se anche una minima parte delle questioni morali determinasse la nostra politica, allora la Palestina si troverebbe in una situazione migliore. Non c’è una terza via. L’umiliazione da parte degli Stati Uniti della Corte internazionale di giustizia e della Corte penale internazionale piegate a una giustizia universale a favore dell’Occidente è un vera crisi. E, concludendo, Pappé condivide quanto afferma l’amico economista Jeffery Sachs che se non siamo d’accordo sulla giustizia universale non saremo in grado di cooperare globalmente per risolvere le grandi sfide che ci attendono. Gaza ha messo in luce che il diritto internazionale non è internazionale. Ma noi possiamo ancora salvarlo. In realtà non abbiamo scelta; dobbiamo salvarlo. Altrimenti crollerebbe l’intero mondo globale, non solo Gaza e la Palestina.
A cura di Paolo Degasperi
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