Pigolii d’ipocrisia tra le macerie: strage di giornalisti a Gaza

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La mattanza di giornalisti a Gaza continua, implacabile, nel silenzio complice del mondo e tra i pigolii ipocriti dei leader europei. Mentre le organizzazioni internazionali denunciano, nessuno agisce concretamente per proteggere chi documenta l’orrore.
Immaginate solo per un momento il pandemonio globale che si sarebbe scatenato se un missile di Hamas avesse colpito una troupe israeliana: titoli, condanne, sanzioni. E invece, nel silenzio generale, tra i 186 e i 234 giornalisti e operatori dei media palestinesi sono stati uccisi a Gaza, secondo diverse fonti verificate. Nel frattempo, ai media internazionali continua a essere impedito l’accesso alla Striscia.

L’ultima troupe di Al Jazeera è stata colpita domenica 10 agosto, nel cuore di ciò che resta di Gaza City: sei morti, tra cui il corrispondente di punta dell’emittente, Anas al Sharif, 28 anni. Accusato – senza prove – di essere un attivista delle brigate Al Qassam, era stato minacciato più volte. Come avvertimento, gli avevano ucciso il padre. Anas, consapevole del rischio, aveva consegnato il suo testamento ai colleghi. Uno stralcio commovente recita:

“Se queste parole vi giungono, sappiate che Israele è riuscito a uccidermi e a mettere a tacere la mia voce. Vi affido la Palestina, il battito cardiaco di ogni persona libera in questo mondo. Vi affido il suo popolo, i suoi bambini innocenti e oppressi, che non hanno mai avuto il tempo di sognare o di vivere in sicurezza e pace.”

La relatrice speciale dell’ONU Irene Khan aveva denunciato sui canali diplomatici l’imminente pericolo per la vita di Anas, ma non è servito a nulla. I suoi reportage sui massacri in corso a Gaza avevano, nei fatti, firmato la sua condanna a morte.

L’esercito israeliano (IDF) continua a colpire giornalisti con l’accusa, spesso infondata, di collaborare con Hamas. Come riportato da Fabio Scuto su Il Fatto Quotidiano del 12 agosto, esiste in Israele una unità speciale dell’IDF, la Legimaty Unit, creata anche per spiare e assassinare i reporter nella Striscia.

È chiara ormai da tempo la volontà del governo israeliano di eliminare le voci scomode e impedire testimonianze dirette del genocidio in corso.

Aya Ashour, giornalista palestinese, ha dichiarato il 13 agosto sempre a Il Fatto Quotidiano:

“Fare questo lavoro qui significa mettere a rischio la propria vita e quella delle nostre famiglie. Ogni momento potrebbe essere l’ultimo. Se non prendono di mira te, potrebbero prendere di mira i tuoi cari. Il dolore psicologico è indescrivibile. Non ci sentiamo alla pari con gli altri giornalisti del mondo in una zona di guerra. Non sentiamo la stessa protezione o solidarietà.”

Ashour invita la stampa estera a una solidarietà autentica e senza pregiudizi, e a esercitare pressioni per ottenere l’ingresso a Gaza. La narrazione secondo cui il governo Netanyahu abbia preso di mira i giornalisti palestinesi solo dopo il 7 ottobre è falsa.

Lo ricorda anche Alessandro Robecchi, sempre su Il Fatto Quotidiano, citando l’assassinio della giornalista Shireen Abu Akleh, uccisa l’11 maggio 2022 a Jenin (Cisgiordania), in un’area dove Hamas non è presente. Inizialmente Israele negò la responsabilità, poi ammise che sì, era stata colpita da fuoco amico “per errore”. Alla fine, promise un’indagine che non venne mai svolta.

A rendere l’episodio ancora più raccapricciante, l’intervento dell’esercito israeliano in assetto antisommossa ai funerali della giornalista, due giorni dopo. Le immagini fecero il giro del mondo: soldati israeliani che caricavano il corteo funebre, picchiando a bastonate chi portava la bara di Shireen.

Robecchi conclude amaramente:

“Una buona metafora di cos’era, e cos’è ancora, anche prima del 7 ottobre, Israele. Tutto evidente, tutto filmato, tutto alla luce del sole: l’assassino che elimina i testimoni dei suoi crimini, sotto gli occhi di tutti, con molti complici, sostenuto da chi finge di non vedere, certo dell’impunità.

A cura del Comitato di Redazione


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