Da Valsugana News n. 4/2025
All’inizio del 2000, le aziende tecnologiche con sede nella West Coast degli Stati Uniti crearono una serie di prodotti innovativi che sfruttavano la rapida crescita di internet e che rendevano la vita più facile, più divertente e più produttiva e che aiutavano le persone a mettersi in contatto e a comunicare fra loro.
Pareva l’alba di un nuovo mondo e i fondatori di queste aziende vennero visti come dei geni e dei benefattori dell’umanità.
Questa ondata tecnologica si rivelò presto uno tsunami che investì la vita degli adulti, ma iniziò a trasformare anche la vita dei bambini.
Molti genitori, infatti, scoprirono con sollievo che uno smartphone o un tablet potevano tenere impegnati e tranquilli i bambini e gli adolescenti per ore. Non ci si pose il problema se ciò era un bene o un male perché lo facevano tutti.
Questo ha riguardato la Gen Z, cioè la generazione nata dopo il 1995 che vide l’arrivo dell’iPhone nel 2007 e la nuova era dei social media che nel 2009 introdusse i like, il retweet (o share) che divennero virali nelle dinamiche sociali del mondo virtuale.
“La Generazione Z è diventata la prima della storia ad attraversare la pubertà con in tasca un portale che la distoglieva dalle persone vicine e la attirava verso un universo alternativo, esaltante, instabile che creava dipendenza e che non era adatto a bambini e adolescenti… I teenager della Gen Z trascorrevano ore e ore ogni giorno a “scrollare” i felici e rutilanti post di amici, conoscenti e influencer… Trascorrevano molto meno tempo a giocare, parlare, toccare o anche solo guardarsi negli occhi con amici e familiari…” Questo è quanto scrive lo psicologo americano Jonathan Haidt nel suo interessante e allo stesso tempo preoccupante testo intitolato “LA GENERAZIONE ANSIOSA, come i social hanno rovinato i nostri figli” che consiglierei a tutti i genitori di leggere.
Egli considera la fine degli anni Ottanta come l’inizio della transizione da “un’infanzia fondata sul gioco” a “un’infanzia fondata sul cellulare” che nel secondo decennio del 2000 ha visto trasferire la vita sociale di molti nostri ragazzi sugli smartphone con accesso continuo a social media, videogame e altre attività online.
Haidt la definisce la Grande Riconfigurazione dell’infanzia e sostiene che sia “l’unica e sostanziale ragione alla base dell’ondata di malattie mentali tra gli adolescenti”.
La Gen Z, infatti, è diventata più ansiosa, depressa, soggetta a episodi di autolesionismo e di suicidi, ma anche, a mio parere, di chiusura nelle mura domestiche e gli stessi disturbi alimentari come l’anoressia e la bulimia hanno a che vedere, almeno in parte, con social e influencer che inducono le ragazze a voler imitare modelli di bellezza artefatti e quindi irraggiungibili, mentre i maschi ricercano popolarità online con challanges (sfide) virali anche pericolose per la loro incolumità fisica.
Con l’avvento dello smartphone, è venuto a mancare il gioco libero, importante per sviluppare competenze sociali come la risoluzione di conflitti e le abilità fisiche. I social network sabotano le amicizie reali e l’apprendimento sociale perché i touch screen, questi schermi diventano abilissimi a catturare l’attenzione dei ragazzi anche quando si trovano in compagnia degli amici o addirittura fanno preferire gli amici virtuali a quelli reali.
Ma questa deprivazione sociale riguarda anche il rapporto con i genitori che in un sondaggio ammettono, in una percentuale che si avvicina al 70%, di essere distratti dal cellulare quando passano del tempo con i figli, ma anche durante il poco tempo in cui la famiglia mangia assieme. Connessi a internet, ma disconnessi con i figli!
Un altro danno provocato, secondo Haidt, dallo smarphone sempre acceso è la privazione di sonno quanto mai importante in adolescenza per un sano sviluppo psico-fisico in quanto l’uso dei dispositivi, oltre a sottrarre ore al sonno, lo disturba di per sé. Questo comporta stanchezza, stati depressivi, maggior aggressività, mancanza di autocontrollo. Un terzo danno, sempre rilevato dall’Autore citato, è la frammentazione dell’attenzione. È facile immaginare un ragazzo che mentre studia è tempestato di notifiche da decine di app, da messaggi di amici, informazioni dell’ultima ora, ecc. Delle ricerche hanno evidenziato una correlazione tra l’uso massiccio di smartphone e videogame e la sindrome di deficit d’attenzione e iperattività.
Un quarto danno, dice infine Haidt, è la dipendenza perché i mille stimoli che arrivano dai social sviluppano dopamina, un neurotrasmettitore che fa stare bene, ma che però attiva dei circuiti cerebrali che inducono a volere sempre di più. Cioè, il piacere provato induce a continuare, per cui, da ricerche fatte, risulta che molti adolescenti passano sui social una media di 7 ore al giorno, ma una parte anche parecchie di più. L’intero ambiente online, infatti, è architettato per agganciare il fruitore e fargli spendere sempre più tempo su ogni tipo di prodotto spesso poco raccomandabile per i nostri figli.
Ma mentre ci sono leggi che vietano la vendita di tabacco e alcol ai minori o un loro ingresso in una sala giochi, non c’è nulla che regolamenti l’accesso alle varie piattaforme e alle loro applicazioni.
Quindi, cosa si può fare? Considerati i danni prodotti su queste ultime generazioni, lo psicologo americano propone una cura drastica: niente smartphone prima dei 14 anni e niente profilo social prima dei 16. Se proprio un genitore non ce la fa, per i bambini di elementari e medie, consiglia il parental control che permette di filtrare i contenuti e consente anche di impostare il tempo di utilizzo di questi strumenti.
A scuola, Haidt propone il ritiro degli smartphone per tutto l’orario scola- stico. Difficile, ma non impossibile se i genitori si coalizzano in comportamenti coerenti e così dirigenti e insegnanti. Fondamentale, poi, il loro esempio!
A bambini e ragazzi occorre, poi, fornire più occasioni di gioco libero, attività sportive e luoghi dove possano incontrarsi per praticare attività ricreative come musica, teatro, ecc. Favorire inoltre la partecipazione ad attività estive, campeggi o altro dove i propri figli frequentino altri bambini che non abbiano con sé uno smartphone.
a cura di Paolo Degasperi, psicopedagogista e sociologo
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