Leggendo l’articolo di Simone Casalini su Il T quotidiano (“Cronache di una cultura debole”), colpisce il modo in cui si liquida la figura di Francesca Albanese come se fosse un’ennesima protagonista del “rosario dello spettacolo contemporaneo”.
È un giudizio ingiusto e miope.
Albanese non è diventata un “personaggio” perché parla di Palestina, ma perché interpreta — da giurista e da conoscitrice della storia e del diritto internazionale — la necessità morale e politica di prendere posizione di fronte a una tragedia in corso.
Definire questa esposizione “fragilità comportamentale” significa confondere la serietà etica con l’apparenza mediatica.
Casalini individua nel “grillismo” l’origine del decadimento culturale italiano, ma la realtà è ben più complessa.
La trasformazione della cultura in talk show non nasce con Grillo, ma affonda le radici nel berlusconismo, quando la politica e il giornalismo hanno cominciato a modellarsi sui linguaggi dello spettacolo, svuotando di senso la riflessione critica e sostituendo il confronto con la battuta, il pensiero con l’immagine.
Oggi, chi — come Greta Thunberg o Francesca Albanese — osa sottrarsi a quella logica e riportare la parola alla sua funzione etica e politica, viene accusato di “esibizionismo”.
Eppure proprio loro incarnano, nella prassi, ciò che Adorno e Marcuse teorizzavano:
che la società contemporanea tende a soffocare il pensiero critico attraverso il consumo, la burocrazia e la cultura di massa.
Marcuse parlava dell’“uomo a una dimensione”, prigioniero di una realtà che gli impedisce di vedere alternative;
Adorno denunciava l’“industria culturale” come meccanismo di omologazione e perdita di autenticità.
Ebbene, chi oggi si oppone a guerre, devastazioni ecologiche, ingiustizie strutturali sta mettendo in atto quella stessa resistenza che i filosofi della Scuola di Francoforte indicavano come unica via per restituire all’uomo la capacità di pensare e agire liberamente.
Se ieri i riferimenti erano Marcuse e Adorno, oggi i loro eredi non siedono nelle aule universitarie ma nelle piazze, nei tribunali, nelle assemblee civiche.
Forse la cultura non è “debole” — come sostiene Casalini — ma semplicemente ha cambiato forma: è tornata a farsi azione, testimonianza, disobbedienza.
Ed è questo, non il conformismo mediatico, a tenerla viva.
Risposta di Alex Marini all’articolo apparso. domenica 12 ottobre su il T e pubblicato mercoledì 15 su Il T
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