Perché molti giovani non vanno a votare

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da Valsugana News n. 5/2025

Nelle elezioni amministrative di Trento dello scorso mese, c’è stato un ulteriore calo dell’affluenza; si è passati dal 60,93% del 2020 al 49,93% di quest’anno. Un trend che ha interessato tutta la nostra Provincia e che riguarda tutte le fasce di età e fa male vederlo perché il voto è stata una conquista durata secoli e quella femminile è molto recente, come ben raccontato nel bel film di Paola Cortellesi, “C’è ancora domani”.

Tra chi non è andato a votare ci sono purtroppo anche molti giovani.

Il dato più recente che abbiamo della fascia di età che va dai 18 ai 27 anni è quello delle Europee del 2024 e ci dice che il 54,1% di questi consegnano scheda bianca/nulla o si astengono mentre quelli dai 28 ai 43 ancora meno (il 53,8%).

Chiediamoci qual’é il motivo di questo comportamento elettorale considerando che il futuro è loro e dovrebbero essere interessati a condizionarlo.

Le motivazioni sono molteplici e sarebbe semplicistico accusarli di superficialità o qualunquismo. Chiediamoci piuttosto qual’ è stato il terreno di coltura in cui sono cresciute queste ultime generazioni, i “Millenials” (1980-1996) e “Generazione Z (1997-2012) che avevano il diritto al voto.

Con la crisi delle ideologie, avvenuta intorno agli anni Ottanta del secolo scorso, abbiamo assistito a uno svilimento della politica che, sempre più lontana dalle esigenze dei cittadini, appare ormai uno strumento succube delle plutocrazie finanziarie ed economiche che ormai dominano ogni forma di organizzazione sociale. Parallelamente, nelle società evolute, si è andato affermando un consumismo sfrenato e una corsa all’arricchimento e al successo che hanno oscurato i valori dell’onestà, della solidarietà e del bene comune e se “democrazia è partecipazione” come cantava Giorgio Gaber, della mancanza di partecipazione ne soffre anche la democrazia.

Questa crisi valoriale ha permeato il tessuto sociale, ma anche quello familiare che non è più riuscito a trasmettere alle nuove generazioni quei principi e quei valori, ma anche quegli ideali che erano stati trasmessi alla generazione dei baby boomer, nata nell’immediato dopoguerra, affamata di vita e di cambiamento sfociato poi nel movimento studentesco e operaio del Sessantotto.

Oggi, il diffuso benessere sembra aver anestetizzato tanti ragazzi e l’arrivo delle nuove tecnologie e dei social ne ha enormemente ampliato il loro mondo virtuale, ma ne ha ridotto quello sociale e quindi anche quello partecipativo.

In questo contesto, è venuta meno la voglia di cambiare questo mondo che cresce nell’ingiustizia, nella diseguaglianza, nei conflitti.

Forse è scattata anche una forma di rimozione; si tende cioè a non pensare ai problemi enormi quali il cambiamento climatico, le guerre sempre più vicine, le devastazioni ambientali e anziché vedere il futuro come promessa viene vissuto come minaccia.

Forse si è anche consapevoli che il nostro stile di vita ci sta portando al disastro, ma non si vuole o si pensa impossibile cambiarlo.

Ma se il tessuto sociale e quello famigliare sono malati, la politica non sta certo meglio.

L’arroganza, la mancanza del senso del pudore, la disonestà, financo l’impunità sono arrivate al potere e quindi non c’è da stupirsi se tanta gente e anche molti giovani, hanno perso la fiducia di poter cambiare le cose e non vanno più a votare.

La famiglia rimane comunque fondamentale per creare nei figli le basi di un interesse alla politica e far nascere il desiderio di impegnarsi per cambiare in meglio la società. Se i genitori, in casa, non ne parlano mai o sempre in termini dispregiativi o qualunquistici dicendo che tanto “sono tutti eguali”, non c’è da meravigliarsi se poi i figli, giunti all’età del voto, non ci vanno per disinteresse o perché non saprebbero chi votare. Dove c’è interesse e se ne parla, i figli potranno maturare anche idee diverse da quelle dei genitori, ma avranno comunque delle idee che cercheranno di portare avanti.

Due figure politiche rappresentano bene i due mondi che oggi si contrappongono: Donald Trump che, nato miliardario, ha misurato la sua vita in soldi, consumi ed edonismo travasati poi nella politica e Pepe Mujica, l’ex presidente dell’Uruguay (2010-2015) che governò per cinque anni in nome della giustizia, dell’onestà, della condivisione del bene comune, compreso quello del suo stipendio devoluto al 90% ai poveri. Un Trump che gira il mondo a stringere accordi e firmare affari miliardari con un codazzo al seguito di banchieri, finanzieri e industriali e che promette la felicità attraverso i consumi e, all’opposto, Mujica con una filosofia di vita improntata alla semplicità e alla moderazione, nemico del consumismo odierno che riteneva (è morto a 89 anni pochi giorni fa) figlio di un mercato che deve continuamente alimentarsi a danno di uno sviluppo sostenibile. “La grande crisi – diceva Mujica in un suo discorso alle Nazioni Unite – non è ecologica, è politica. L’uomo oggi non governa le forze che ha scatenato, ma sono le forze che ha scatenato che governano il mondo e la vita”. Ecco, penso che Mujica sia il modello a cui i giovani dovrebbero guardare per ritrovare interesse alla politica anche perché solo perseguendo un modello di sviluppo più rispettoso dell’ambiente e della persona e più attento a sanare le enormi diseguaglianze economiche a livello mondiale, potremo salvarci.

a cura di Paolo Degasperi, psicopedagogista e sociologo

 


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